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intervista

 a cura di Roberta Fasola
(ottobre 2012)

 

 “Ogni cittadino della UE consuma in media 16 tonnellate di materiale all'anno...

Dovremmo progettare più idee e meno oggetti”.

 

Emblematica la frase con cui ci si “scontra” una volta entrati nel sito del prof. Morpurgo:

a riassumere il concetto che la crisi che sta vivendo il design non è solo finanziaria e produttiva ma anche, e soprattutto, culturale. Per questo motivo non si può, banalmente ridurre il problema alla sola qualità degli oggetti prodotti in serie; è necessario sviluppare modelli di crescita che superino gli sprechi e le disuguaglianze che la “civiltà” industriale ha determinato: il ritorno a procedimenti di tipo artigianale, sviluppando nuovi sistemi di produzione e consumo, potrebbe essere una soluzione; tuttavia questa opportunità può nascere unicamente dalla presa di coscienza dei limiti delle risorse naturali.

Partendo da queste considerazioni l’Atelier Rwanda affronta alcune tematiche che possono aiutare a definire nuove linee di intervento.

Vediamo come.

 

  • Esattamente quando e da che volontà nasce Atelier Rwanda?

 

Nel 2007 sono stato invitato in Rwanda per individuare un possibile intervento per valorizzare una tecnica tradizionale di intreccio con erbe locali, l’Agaseks K’uruhindu, con cui gli artigiani confezionavano un particolare cesto, simbolo del Rwanda, e che si stava perdendo perché complessa e molto lenta da eseguire. Per soddisfare le esigenze del mercato turistico la stesso oggetto ora viene realizzato con altri materiali utilizzando un metodo più grezzo.

Alla fine di questa missione abbiamo proposto di avviare un programma formativo che tramite workshop  coinvolgesse artigiani locali e studenti (ruandesi ed europei) per individuare nuove tipologie di prodotto per un mercato più remunerativo.

Così nasce l’Atelier Rwanda, che inizia il proprio operato realizzando gioielli con un sistema locale che si stava perdendo per la complessità di esecuzione, per poi orientarsi anche verso l’utilizzo di sostanze naturali per la colorazione di stoffe e l’introduzione di sistemi costruttivi che consentano il riciclo di materiali locali che altrimenti verrebbero ridotti all’essere rifiuti.

 

 

  • Atelier Rwanda si occupa del trasferimento di tecnologie e di design per la valorizzazione di materiali naturali locali. Si potrebbe per questo definire un progetto di tipo sociale tra le tradizioni locali e il know out occidentale?

 

Si certamente ma sottolineando il fatto che quando si lavora in questi contesti il trasferimento di know out è reciproco. Non si tratta tanto di trasferire dei saperi certi ma di avviare un lavoro comune che porta ad un arricchimento di tutti: il problema non è insegnare  ma ricercare insieme una possibile via d’uscita, studiando il rapporto tra design (o saperi tecnico-scientifici) e saperi locali, per valorizzare le capacità produttive delle cooperative artigianali e sfruttare al meglio le potenzialità dei materiali originari, permettendo così lo sviluppo di mercati locali sostitutivi all’importazione di materiali, oggetti e/o componenti da altri paesi.

 

 

  • Lavorate in spazi costruiti da voi: in che modo l’utilizzo dei materiali locali insieme ad oggetti che potrebbero definirsi “di scarto”, vengono recuperati e re-interpretati ad uso delle necessità locali?

 

In realtà lavoriamo in spazi che non abbiamo costruito noi ma nel 2010 abbiamo edificato un padiglione provvisorio per testare alcuni dei progetti su cui stavamo lavorando.

Una sorta di piastra-laboratorio dove sperimentare il comportamento di componenti edilizie in scala 1:1 realizzate con materiali naturali presenti nell’area che, normalmente, verrebbero poco utilizzati od eliminati; ne sono un esempio i pannelli isolanti realizzati con le foglie e la corteccia del banano o gli incastri e le “viti” per unire il bamboo fatti con legno di caffé.

 

 

  • Il tema del Ri.Ciclo sembra stia alla base di questo progetto: potrebbe darci una Sua interpretazione?

 

A monte del Ri.Ciclo, e di altri procedimenti analoghi, c’è la necessità ormai non più rinviabile di ridurre il consumo dei materiali. Nel campo del design questo significa essenzialmente prolungare la vita dei prodotti, quindi oltre al Ri.Ciclo dobbiamo riconsiderare la necessità di riparare, di mantenere, di smettere di consumare per consumare.

“Il problema…“ come spiega Jean-Pierre Olivier de Sardan “…è comprendere in che modo il mondo si trasformi, piuttosto che pretendere di trasformarlo senza darsi mezzi per comprenderlo”.

Questa affermazione, che nasce nell’ambito dell’antropologia dello sviluppo, può acquistare un particolare significato se la riferiamo al lavoro di progettisti che operano nei paesi del Sud del mondo per migliorarne le condizioni di vita: il concetto di “Ri.Ciclo”  deve essere inteso come trasferimento di alcuni saperi pratici (propri degli operatori allo sviluppo) a popolazioni dotate di sistemi di senso (culture) differenti.

 

 

  • Se Lei dovesse definire questo progetto che è al contempo sociale, culturale, architettonico e di design, quale declinazione sceglierebbe?

 

Il  suo essere un programma formativo poco ortodosso.

L’obiettivo formativo generale, oltre all’acquisizione di specifici saperi progettuali, è la capacità di comprenderne le potenzialità rispetto a scelte di sviluppo sostenibile: il fatto che artigiani e studenti  di mondi apparentemente lontanissimi, lavorando e vivendo insieme, si siano conosciuti scambiandosi i saperi, è assolutamente stimolante; da un lato la cultura, in buona parte cosmopolitica e internazionale dei professionisti che agiscono in maniera pressoché identica in qualsiasi area operano, dall’altro una grande varietà di saperi locali; per andare verso un senso del progetto che sia in grado di interagire con la crisi del pianeta.

 

  • Progetti per una crescita futura?

 

Già nel 2012 da questa esperienza è nato il Master in design per la cooperazione e lo sviluppo sostenibile promosso dalle università di Firenze e Genova insieme allo Iuav di Venezia e in Rwanda sono operative due cooperative di artigiane che producono gioielli.

Il problema non è quello di crescere ma di riuscire a fare, e bene, queste cose.