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Design artigianato e svilluppo postindustriale

Implicazioni inedite e nuove esigenze di conoscenza

Un laboratorio di ricerca e progettazione per l’innovazione del design in Africa

gennaio 2011

“Come giustificheremo davanti ai posteri il modo in cui abbiamo trattato la terra, che era ancora bella quando i nostri padri ce l’hanno lasciata nonostante le migliaia d’anni di discordie, d’incuria e di egoismo?”

 

 

 

Interdipendenza e complementarietà delle scelte

Nell’affrontare il ruolo del design nei progetti di cooperazione internazionale è necessario partire dalla crisi generale che stiamo vivendo in questo complesso  momento storico.

Una crisi non solo finanziaria e produttiva ma anche, e soprattutto, culturale.

L’ incapacità di progettare, o forse solo immaginare, un diverso futuro per le nuove generazioni è il dato più evidente di questa crisi di idee, e di valori, che purtroppo sta caratterizzando il nuovo millennio.

Per tentare di superarla dobbiamo acquisire la consapevolezza che la globalizzazione rende ormai sempre più inefficiente ogni tentativo di isolare sviluppo e sottosviluppo, sud e nord del mondo.

I problemi sono sempre più interdipendenti e complementari.

Risolvere almeno i “miei” problemi, non avendo risorse per risolvere i “loro”, è ormai una illusione, i problemi sono inevitabilmente “nostri”.

Analogamente è un’illusione  che possano coesistere differenti strategie per i diversi contesti culturali, sociali  e produttivi in cui operiamo.

Ma soprattutto penso che sia sempre più difficile pretendere d’esportare un nostro modello “sviluppato” in contesti cosi detti “in via di sviluppo”.

Quale modello poi, visti gli effetti che il nostro ha avuto sulla distruzione dell’ambiente?

Non dimenticando come con il “ neo-colonialismo gli accordi di cooperazione e gli aiuti [sono serviti] ad imporre un modello di sviluppo occidentale e dipendente”[i]

 

Tutto ciò comporta necessariamente una rimessa in discussione delle pratiche della cooperazione internazionale.

Il superamento del concetto stesso di “aiuti”  con la conseguente necessità di individuare le forme più opportune per costruire “progetti in comune” tra saperi, e popolazioni, che risiedono in contesti territoriali diversi.

 

Per quanto riguarda le specificità di chi opera nel campo del design questo significa anche superare l’illusione che da una parte, nel nord del pianeta, si possa continuare ad essere “creativi” dando risposte sempre aggiornate alla bulimia consumistica del mercato e dall’altra parte, nei diversi sud, possiamo costruirci degli ambiti dove indirizzare la componente etica del nostro lavoro.

Man mano che acquisiamo i dati sulle reali condizioni di questo nostro piccolo pianeta ridotto a discarica, la cultura del design dovrebbe concentrarsi su un problema prioritario: come ridurre la produzione di prodotti, oggetti, cose.

Ridurre è forse oggi l’unica soluzione per innovare il design e renderlo funzionale al superamento della crisi.

Ridurre la produzione di oggetti che saturano uno spazio sempre più limitato e consumano ciò che ancora rimane delle risorse naturali.

Dobbiamo ri-cominciare a produrre più idee e meno cose.

E’ necessario iniziare a superare lo stesso concetto di consumo così come è andato estendendosi caratterizzando ogni forma della vita, nei paesi così detti sviluppati.

E’ necessario recuperare il vecchio termine "uso", limitandoci all’accezione di "consumo" come consumato, logoro…non più utilizzabile.

In attesa che questo processo di riduzione produttiva, e consumistica, possa attuarsi dobbiamo estendere e generalizzare la pratica, cultura, del riuso.

Riusare i prodotti stessi, sempre più precocemente abbandonati per consumarne altri, e non utilizzando quelli volutamente effimeri come le straripanti confezioni, i mono-dose e le varie paccottiglie usa e getta.

Ma soprattutto riusare i materiali con cui sono stati costruiti l’infinità di oggetti che ci circonda cercando di allungarne il più possibile la vita.

Come è stato messo in evidenza da Andrew H. Dent, vicepresidente della Library and Materials Research, rispetto alle “terre rare” come terbio, disprosio, neodimio, ecc., che ci permettono di far funzionare i giocattoli tecnologici, “tutto lascia pensare che abbiamo a disposizione solamente i prossimi due decenni per modificare radicalmente il nostro atteggiamento nei confronti del pianeta, prima che le cose volgano irrimediabilmente al peggio”.[ii]

Come ci ricorda Luciano Barbero: “E noi, nel frattempo, i “maestri” del “Primo Mondo”, noi della cultura “avanzata” e discriminante, noi dell’analfabetismo di ritorno per quanto riguarda i nostri rapporti con i nostri simili e con la natura, noi a quale speranza possiamo aggrapparci?

Siamo abbastanza umili e sensibili per compiere un esame critico del nostro sviluppo e rifondare i nostri progetti per il futuro su alcuni valori della nostra cultura centrati sulla solidarietà, giustizia sociale e sul rispetto di tutte le specie viventi in natura?

Siamo disponibili ad adattare il nostro stile/standard di vita alle condizioni in cui tutti gli esseri viventi del nostro pianeta abbiano la possibilità di sopravvivere e prosperare? Siamo responsabili di tutte le nostre azioni e dell’impatto che queste hanno sull’ambiente comune?

Siamo determinati a costruire dei punti di riferimento comuni per fronteggiare tutti i tipi di inquinamento attuali e mantenere aperto il nostro spirito critico?”[iii]

 

 

Artigianato e società post-industriale

“Come giustificheremo davanti ai posteri il modo in cui abbiamo trattato la terra, che era ancora bella quando i nostri padri ce l’hanno lasciata nonostante le migliaia d’anni di discordie, d’incuria e di egoismo?”

Questa frase non è tratta da una relazione sullo stato del pianeta di un ambientalista contemporaneo ma è stata scritta nel 1883 da William Morris.

Sorprendente l’attualità di questo interrogativo.

Nel pensiero di Morris la questione estetica è immediatamente etica, umana, sociale.

Per Morris non si può auspicare un cambiamento dei singoli senza progettare un mutamento sociale. Come scriveva con una capacità di previsione incredibile: “Vi è bisogno di leggi sull’adulterazione solo in una società di ladri – e in tale società esse restano lettera morta“.

L’attualità deriva dal fatto che la “civiltà” industriale, verso cui Morris si opponeva con una strenua difesa del valore del lavoro artigianale, ha dimostrando l’incapacità di mantenere lo sviluppo auspicato senza produrre squilibri ambientali e sociali.

C’è infatti una importante differenza rispetto a queste riflessioni della seconda metà dell’Ottocento: l’acquisizione dei limiti delle risorse naturali.

Sicuramente oggi nessuno può sostenere, come allora, che siamo davanti ad una società imbruttita dalla produzione di oggetti scadenti fabbricati in serie e che sia necessario reagire facendo rinascere nel pubblico il gusto delle cose belle mediante il ritorno a procedimenti di tipo artigianale.

Il problema non è la qualità degli oggetti fabbricati in serie.

No, il problema è un altro: il ritorno a procedimenti di tipo artigianale o, in altre aree del pianeta, la valorizzazione di quei procedimenti che ancora ne caratterizzano le capacità produttive e l’economia, nasce dall’acquisizioni dei limiti delle risorse naturali e dalla necessità di sviluppare nuovi modelli di produzione e consumo.

Non siamo quindi davanti a “nostalgie preindustriali” ma alla necessità di sviluppare modelli di crescita che superino gli sprechi, e le disegualianze, che la “civiltà” industriale ha determinato.

Tutto ciò ha sicuramente implicazioni inedite e nuove esigenze di conoscenza e comporta la necessità di superare una visione dell’artigianato come routine e dell’industria come innovazione.

 

Davanti a questo scenario sono evidenti:

1.  la necessità di ridefinire le nostre capacita di intervento progettuale rispetto allo sviluppo di un contesto postindustriale

2. la necessità di ridefinire anche i rapporti con “i sud del mondo” e quindi il significato, e le potenzialità, delle “opportunità di arricchimento culturale che nascono dall’incontro tra mondi diversi oggi sempre più interdipendenti e complementari”

 

Davanti a questo scenario sono però sempre più evidenti  i ritardi che complessivamente caratterizzano la cultura del design.

Università, editoria, centri di ricerca, ecc. si sono limitati a seguire la crescita produttiva alimentando la cultura del consumo in una visione del progetto che indirizza la creatività verso un unico obiettivo: nuovi prodotti per estendere il consumo.

Nei rari casi in cui si sono posti problemi sui modelli di sviluppo perseguibili, vedi l’esperienza della “sostenibilità”, questa è stata ghettizzata  come insegnamento, o percorso, opzionale.

Mai ci si è posto il problema se questi problemi non dovessero invece rimettere in discussione l’impostazione complessiva, il senso, del nostro fare.

 

 

 

Le prime esperienze dell’Atelier Rwanda Workshop

Partendo da queste considerazioni l’Atelier Rwanda Workshop, il Laboratorio di ricerca e progettazione per l’innovazione del design in Africa, avviato nel 2008 in Rwanda, ha iniziato ad affrontare alcune delle tematiche che possono aiutarci a definire le linee di intervento in questo particolare contesto:

a. il rapporto tra design ( o saperi tecnico-scientifici) e saperi locali,

per valorizzare le capacità produttive delle cooperative artigianali

b. le potenzialità dei materiali locali,

per permettere lo sviluppo di mercati locali sostitutivi all’importazione di materiali, oggetti e componenti, da altri paesi.

In particolare il lavoro si è concentrato sulle fibre vegetali e la terra.  

Nell’ artigianato ruandese la “poterie” e la “vannerie” rappresentano infatti i due settori che maggiormente hanno espresso una produzione originale legata alla specificità delle tradizioni economiche e culturali dell’area: l’agricoltura.

Le pratiche artigianali, storicamente integrate con l’attività agricola, si sono sviluppate e consolidate in Rwanda , come in tutte le regioni del pianeta, influenzate dai ritmi “naturali” dell’agricoltura e dalla disponibilità di risorse naturali.

“L’artigianato ruandese ha subito molti cambiamenti dovuti alla massiva introduzione di prodotti europei ed asiatici. Il potere colonialista e i missionari hanno portato nuove idee tali per cui le professionalità che non si sono adattate di conseguenza semplicemente sono scomparse.( … ) Queste novità, sotto l’appellativo di modernità, hanno cambiato nell’insieme la vita socio economica ruandese e tra il Rwanda e i suoi confinanti. Di conseguenza mestieri che non si sono adattati a questi cambiamenti multiculturali  sono andati lentamente ma irreversibilmente scomparendo.

Questo è avvenuto soprattutto per quei mestieri le cui materie prime sono state rimpiazzate da materie importate o da prodotti finiti di maggiore qualità.

La fabbricazione di certi oggetti tradizionali è andata scomparendo al ritmo di adattamento della società ruandese al nuovo stile di vita restando alla mercé della globalizzazione.”[iv]

Il lavoro avviato dall’ Atelier Rwanda parte dalla riflessione su quali risorse possono ancora rappresentare “quei mestieri le cui materie prime sono state rimpiazzate da materie importate o da prodotti finiti di maggiore qualità” se indirizzati verso nuove idee di progetto.

 

Il programma nasce dalla richiesta rivolta, all’Università Iuav di Venezia, dal Club Soroptimist di San Marino di rendere operativo, per quanto concerne la formazione di giovani artigiane, il Centro di accoglienza e formazione  San Marco che vari Club europei del Soroptimist avevano contributo a realizzare, dopo il genocidio, vicino a Kigali.

Alla realizzazione del programma, che presentammo nel 2008 con la mostra South out there[v] organizzata, per la Repubblica di San Marino, in occasione della 11 Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, oltre al Soroptimist e all’Università Iuav di Venezia si affiancarono la Fondazione Claudio Buziol di Venezia  e, in seguito, il Kigali Institute of Science and Technology (Kist) politecnico del Rwanda.

Questo particolare mix di partner nel progetto ha portato a maturare una formula operativa che fino ad oggi ha caratterizzato positivamente il programma: far lavorare insieme artigiane ruandesi e studenti, di architettura e design, ruandesi ed europei.

 

In questi primi due anni di attività sono stati infatti coinvolti nel programma più di 150 persone tra artigiane, studenti e docenti.

Dopo il primo workshop sperimentale organizzato nel settembre del 2009, nel 2010 le attività si sono sviluppate, da maggio a fine settembre, con moduli didattici di 2/4 settimane l’uno.

L’obiettivo formativo generale, oltre all’acquisizione di specifici saperi progettuali, è la capacità di comprenderne le potenzialità rispetto a scelte di sviluppo sostenibile.

Nel concreto sono stati realizzati:

1. Una prima linea di gioielli che recupera, e valorizza, una particolare tecnica ruandese che si sta perdendo per la complessità e lentezza dell’esecuzione.

2. Una ricerca sull’utilizzazione di materiali naturali per la colorazione delle stoffe

3. Nuove tipologie di sciarpe e scarpe che utilizzano queste colorazioni integrandole con fibre vegetali e materiali di recupero

4. Pannelli di tamponamento in banano

5. Viti e giunti in legno di caffé

Parallelamente a queste ricerche più legate all’area del design al Centro San Marco è stata realizzata una piastra-laboratorio dove sperimentare il comportamento di componenti edilizie in scala 1:1 realizzate in materiali naturali.

 

I primi risultati (www.gaddo.eu , https://atelierwanda.wordpress.com, http://issuu.com/atelier-rwanda  ) sembrano positivi e mettono in evidenza la ricchezza di possibilità ( formative oltre che produttive) che possono nascere  mettendo in contatto il design, e giovani designer, con i “saperi locali” e gli artigiani.

 

Ma da queste prime esperienze “sul campo”  è oggi necessario passare ad una visione più ampia, approfondita e articolata, del lavoro svolto per comprenderne sia i possibili sviluppi che le implicazioni teorico-metodologiche che questa, come altre esperienze, possono offrire al miglioramento delle pratiche della cooperazione internazionale.

 

Design, cooperazione internazionale in Africa, e nuove esigenze di conoscenza

Molte di queste considerazioni riguardano complessivamente i paesi in via di sviluppo ma sicuramente hanno un valore particolare in Africa considerando come, fra tutti i paesi del Sud, i paesi africani sono, nella congiuntura attuale, quelli che dipendono maggiormente dall’aiuto esterno.

“ il problema “ come spiega Jean-Pierre Olivier de Sardan “ è comprendere in che modo il mondo si trasformi, piuttosto che pretendere di trasformarlo senza darsi mezzi per comprenderlo” [vi]

Questa affermazione, che nasce nell’ambito dell’antropologia dello sviluppo, può acquistare un particolare significato se la riferiamo ad una pratica che negli ultimi anni si è estesa: quella di designer, o più in generale progettisti, che operano nei paesi del Sud del mondo per migliorarne le condizioni di vita.

Al di fuori delle intenzioni (delle buone intenzioni), sicuramente encomiabili che spingono questi professionisti ad operare in queste situazioni, quali sono i principali problemi che dovremmo approfondire per migliorare, e rendere più incisivi, gli interventi?

Nei programmi di cooperazione allo sviluppo entrano in contatto persone che rappresentano due sistemi culturali, due universi di significato, due sistemi di senso.

Da un lato una cultura, in buona parte cosmopolitica e internazionale,  dei professionisti che agiscono in maniera pressoché identica in qualsiasi area operano; dall’altro lato, una grande varietà di culture locali.

Lo “sviluppo” consiste nel trasferire alcuni saperi pratici, associati ai sistemi di senso propri degli operatori allo sviluppo, a popolazioni dotate di sistemi di senso ( culture) differenti.

Un sistema pratico difficilmente “attecchisce” in un sistema di senso che gli è estraneo e comunque ciò avviene secondo meccanismi molto poco prevedibili a priori.

Il punto di impatto delle politiche dello sviluppo sulle popolazioni coinvolte si concretizza quasi sempre con un agire fortemente specialistico e settorializzato ( esperti specializzati, organizzazioni specializzate, settorialità dei programmi, ecc).

L’inevitabile divisione in settori degli interventi spesso contrasta con la trasversalità degli interessi delle popolazioni coinvolte.

“La trasversalità popolare si contrappone inoltre al frazionamento dello sviluppo su asse diacronico, dal punto di vista del tempo. Per i suoi animatori, un progetto occupa tutto lo spazio-tempo. E’ centrale, onnipresente, unico. Per i contadini è passeggero, relativo, accessorio, e si inserisce in una catena di interventi successivi. Chi realizza un progetto consacra il 100 per cento della sua attività professionale ad un settore di attività che spesso non riguarda che una piccola parte del tempo del produttore cui sono dirette.” [vii]

I designers che operano sul campo sono “portavoci” della cultura che ispira il progetto e mediatori di questa cultura con la popolazione locale ma mentre hanno una competenza tecnica  dispongono delle competenze necessarie alla mediazione fra questi saperi?

 

Il design non può pretendere di intervenire in maniera positiva nei dibattiti che riguardano la cooperazione allo sviluppo se non vi introduce conoscenze nuove e specifiche.

Solo  il lavoro sul campo può avviare nuovi processi ma occorre che si diano gli strumenti intellettuali e concettuali per realizzare le proprie ambizioni.

 

 

 

 

“Nelle abitazioni private non ci sarà traccia di spreco, di pompa o arroganza, e ognuno avrà la propria parte del meglio.

Potete dire che sogno qualcosa che non è mai accaduto e che non accadrà mai… è vero, è un sogno, ma è già successo che i sogni si siano avverati.”

William Morris The Lesser Arts, 12 aprile 1877.

 

 



[i] Luciano Barbero, Esperienze e riflessioni di un architetto ed urbanista nel “Terzo” e “Quarto” Mondo,      http://www.katciu-martel.it/luciano_%20barbero.htm

[ii] Andrew H. Dent , Terre rare, in Materials matter IV, Editrice Compositori, 2010

[iii] Luciano Barbero, op.cit.

[iv] Kanimba Misago Célestin, …………………..  Musées Nationaux du Rwanda

[v] South out there / SMUD03 a cura di Gaddo Morpurgo, San Marino 2008

[vi] Jean-Pierre Olivier de Sardan, Antropologia e sviluppo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008

[vii] Jean-Pierre Olivier de Sardan, op.cit.